L’utilizzo dell’arte e della creatività nell’insegnamento e nello studio delle lingue in un contesto multilingue

Nelle giornate di venerdì 13 e sabato 14 novembre si è tenuta la conferenza “On the border of art and language learning and teaching in the multilingual world. Sharing practice and theory” – qui il link al programma.

La conferenza era l’evento conclusivo di un percorso iniziato nel 2018 su iniziativa di Marta Nitecka Barche, Dobrochna Futro e Dr. Deirdre MacKenna, a cui si sono poi aggiunte Dandan Chen e Maggie Mroczkowski. Ad eccezione della dottoressa MacKenna tutte le componenti dell’organizzazione sono dottorande presso diverse università scozzesi – Barche presso l’Università di Aberdeen, Futro all’Università di Glasgow, Chen e Mroczkowski presso quella di Edimburgo. L’iniziativa ha come obiettivo l’analisi delle potenzialità dell’arte e della creatività nello studio, nella ricerca e nell’insegnamento delle lingue. Sul sito dell’iniziativa si legge che le domande a cui la conferenza ha cercato di dare una risposta sono:

  • L’arte e la creatività possono aiutarci a comprendere meglio il modo in cui usiamo e studiamo le lingue?
  • Cos’è la creatività nel contesto dell’apprendimento linguistico e che implicazioni ha per studenti e insegnanti?
  • Qual è la pratica migliore per utilizzare l’arte e la creatività nella ricerca linguistica e nell’insegnamento delle lingue che possiamo identificare e promuovere? Quali i modi migliori per farlo?

L’intervento di apertura è stato quello di Louise Glen, Senior Education Officer di Education Scotland, l’organismo nazionale responsabile dell’insegnamento e dell’apprendimento in Scozia, per cui Glen si occupa di lingue moderne, latino, inglese come seconda lingua (EAL) e scozzese. Glen ha iniziato il suo intervento fornendo un quadro generale riguardo lo studio delle lingue in Scozia e la sua evoluzione, sottolineando come fino al 1989 lo studio obbligatorio di una lingua straniera riguardasse studenti dai dieci ai quindici anni e come vi sia stato un notevole progresso da allora. Nel 2011 il governo scozzese ha deciso di adeguarsi alla politica europea in materia di studio delle lingue che prevede l’insegnamento di due lingue straniere nelle scuole dell’obbligo oltre alla lingua madre – modello 1+2 (L2 ed L3). Lo studio obbligatorio della L2 è previsto dal primo anno di scuola primaria (alunni di quattro anni) fino al terzo anno di secondaria (quindici anni) – anno in cui gli studenti possono scegliere le materie da seguire. La L3 viene invece introdotta il quinto anno di scuola primaria – studenti di otto anni – e portata fino al terzo anno di secondaria. Nel caso della L3 l’alunno può decidere di cambiare lingua nei diversi anni di studio. Nel 2019 le lingue scelte come L2 erano francese, tedesco e spagnolo, mentre la L3 più seguita era la lingua dei segni britannica, seguita da arabo, polacco, olandese e giapponese. Queste ultime scelte fatte per poter comunicare correttamente con genitori e nonni.
Lo studio delle due lingue non solo ha aumentato le possibilità di successo degli studenti in un mercato globale, ma secondo Glen è evidente come lo studio della L2 abbia migliorato esponenzialmente la conoscenza della lingua inglese, in particolar modo della sua grammatica.

Nel suo intervento dal titolo Teaching them to think, Heather McClean ha parlato delle strategie adottate per far sviluppare delle competenze critiche agli studenti dell’università in cui lavora. Il lavoro presentato da McClean ha come campione un gruppo di studenti tra i diciotto e i ventiquattro anni, con background diversi, provenienze diverse, un livello di inglese medio pari a un B1 e competenze di pensiero critico sottosviluppate. Per fare in modo che le loro capacità critiche aumentassero era stato chiesto loro di scrivere in un blog delle riflessioni riguardo il loro lavoro e il loro processo creativo, ma il linguaggio utilizzato era prevalentemente insoddisfacente e basico. McClean ha quindi utilizzato la sequenza riflessiva di Gibbs (Reflective Cycle) per stimolare gli studenti. Questa sequenza è formata da sei passaggi: descrizione “Che cos’è successo?”; sensazioni “Che cosa stavi pensando e provando?”; valutazione “Che cos’è stato positivo o negativo dell’esperienza?”; analisi “Cos’altro puoi ricavare dalla situazione?”; conclusione “Cos’altro potevi fare?”; piano d’azione “Se succedesse di nuovo cosa faresti?”.
Oltre alle domande McClean ha inserito anche delle formule per iniziare una frase o una riflessione nei diversi passaggi. Grazie a ciò gli studenti hanno iniziato a sviluppare pensieri e frasi più elaborate ed hanno richiesto una nuova tabella con una terminologia più tecnica e un linguaggio più ricco. Sono stati quindi in grado di documentare l’intero processo creativo e di spiegarlo in maniera più soddisfacente, migliorando anche nelle loro capacità critiche. Il progetto di McClean è tutt’ora attivo e in fase di crescita.

Adriana Uribe ha parlato della sua esperienza di Language Cafè nella città di Aberdeen, nel nord-est della Scozia. L’idea alla base dell’iniziativa è quella di fare in modo che persone provenienti da paesi diversi entrino in contatto per esercitare la lingua inglese. Inizialmente il progetto, partito nel 2017, prevedeva più gruppi in diverse zone della regione dell’Aberdeenshire, ma visto il basso afflusso è stato scelto di concentrare le attività in un unico punto: il cinema Belmont nel centro della città. Gli incontri si tengono una volta a settimana durante la mattina, ma l’idea è quella di crearne anche nel pomeriggio per dare la possibilità a chi lavora di partecipare. Il numero di partecipanti varia dai 25 ai 35, in questo momento di pandemia gli incontri si tengono via zoom e riscuotono comunque un discreto successo. L’argomento viene scelto in anticipo e comunicato ai partecipanti che portano il materiale su cui vogliono lavorare. Uribe ha evidenziato che ciò che tutti i caffetistas – nome che ha dato ai partecipanti – hanno in comune è l’utilizzo dell’inglese nella quotidianità, il fatto di essere lontani dal loro paese di origine – la maggior parte proviene da paesi extraeuropei – e la limitata conoscenza del paese in cui vivono. L’obiettivo principale è ora quello di creare un senso di appartenenza nella nuova comunità e creare una rete di conoscenze.

L’intervento di Ingeborg Birnie e Aedin Ni Loingsigh ha riguardato il bilinguismo e la demenza senile. Birnie ha introdotto il tema affermando che le ricerche mostrano che vi è una riserva cognitiva (cognitive reserve) legata al bilinguismo grazie alla quale la demenza si sviluppa fino a quattro-cinque anni più tardi nelle persone bilingui rispetto che in quelle monolingui. Ma purtroppo quando la demenza si presenta fa regredire le persone alla loro prima lingua, ad esempio può avvenire che una persona che ha sempre parlato inglese ma la cui lingua madre è il gaelico iniziare ad utilizzare solo questa lingua. La domanda che le due studiose si sono poste nella loro ricerca è come si possa entrare in contatto con queste persone. Birnie ha aggiunto che il gaelico sta scomparendo tra i giovani, nonostante sia parlato ancora dagli over sessanta, i quali lo parlano con i loro coetanei ma non con i giovani. I risultati della ricerca di Loingsigh mostrano come i giovani siano disposti a entrare in contatto con le minoranze e i parlanti gaelico, affermando anche che secondo loro la lingua è in declino a causa della sua perdita d’importanza e allo spostamento delle persone da regioni in cui la si parla. Le due studiose hanno fatto un laboratorio teatrale che ha portato alla realizzazione di uno spettacolo in cui una coppia affronta il problema della demenza. Il figlio della coppia deve fare da interprete per il padre, in quanto la madre, che con l’uomo ha sempre parlato inglese, ha avuto una regressione al gaelico a causa della demenza. Viene quindi rappresentata l’importanza di tramandare entrambe le lingue ai figli dal momento in cui ciò potrebbe anche aiutare nel momento in cui la malattia si presenta.

Maggie Mroczkowski, dottoranda presso la Moray House School of Education ha raccontato della sua esperienza come insegnante di spagnolo negli Stati Uniti. Mroczkowski era convinta che il miglior modo per insegnare una lingua fosse quello di utilizzarla sempre durante le lezioni, ma ciò risultava difficile da mettere in pratica per via della scarsa conoscenza da parte degli studenti. Un secondo passaggio è stato quello di utilizzare il translanguaging, ovvero di passare da una lingua all’altra durante la lezione, e i risultati sono stati migliori. In Scozia insegna francese ed ha voluto applicare la ricerca di Fischer ai suoi alunni – età compresa tra i dodici e i quindici anni. La ricerca consiste nell’utilizzare delle metafore per spiegare la propria esperienza nello studio della lingua straniera completando le seguenti frasi: imparare il francese è come; parlare francese è come; usare l’inglese nelle lezioni di francese è come. In abbinamento alle parole gli studenti dovevano fare un disegno che rappresentasse le tre metafore. La ricerca è ancora in fase di sviluppo e quindi Mroczkowski ha sottolineato che non vi sono delle risposte certe, anche se gli alunni esprimono una volontà di parlare la L2 durante tutta la lezione, nonostante ciò risulti più complesso.

In conclusione, ritengo che il fatto di utilizzare un approccio multimodale nell’insegnamento possa favorire lo sviluppo di competenze trasversali che risulteranno utili non solo in ambiente scolastico, e successivamente accademico, ma anche nel lavoro e nell’interazione con gli altri. In un contesto multilingue come quello attuale è sicuramente fondamentale la conoscenza di almeno una seconda lingua, ma non di minore importanza è la capacità di saper rappresentare sia verbalmente che non verbalmente le proprie idee. Questo aiuta lo sviluppo di un pensiero critico e la capacità di espressione.

Articolo di Chiara Mattei, Università di Trento.