Intervista a Marit Westergaard

Patrizia Cordin: Marit Westergaard dirige il Center for Advanced Study in Theoretical Linguistics (CASTL) presso l'Università di Tromsø, ma non solo: è anche direttore della recente filiale di Bilingualism Matters di Tromsø. Alcuni anni fa a Trento ha iniziato la sua attività una filiale simile, chiamata «Bilinguismo Conta». Vorrebbe dirci qualcosa sulle attività e i progetti del centro norvegese?

Marit Westergaard: Prima di tutto vorrei congratularmi con voi per quello che io credo essere la quarta filiale di Bilingualism Matters. Quella di Tromsø è stata la prima a essere aperta dopo il centro di Edimburgo. La nostra filiale si chiama «Flere språk til flere», che in norvegese significa «più lingue per più persone». Vogliamo portare avanti il progetto di Antonella Sorace in modo che più bambini possano accedere ai benefici del bilinguismo. Abbiamo cominciato le nostre attività a giugno dello scorso anno e siamo operativi da quasi un anno e mezzo. Eravamo sicuri dell'utilità del nostro servizio, ma siamo rimasti piacevolmente sorpresi dall'interesse riscontrato. Veniamo contattati da genitori di bambini bilingui o da associazioni di genitori come la Russian Norwegian Association di Tromsø che ci ha chiesto di tenere alcuni incontri sul tema del bilinguismo. La comunità stessa si interessa alle nostre attività e in quello che abbiamo da offrire. Inoltre da Tromsø, che, va ricordato, è una realtà periferica a nord del Paese, siamo stati invitati a Oslo, la capitale, per delle conferenze. Tra una settimana uno dei miei colleghi si recherà a Bergen per un evento nazionale al quale prenderà parte il ministro dell'istruzione e dove Flere språk til flere sarà rappresentata. Quindi siamo molto soddisfatti delle attività svolte fino ad oggi.

Federica Cognola: Vorrei farle una domanda che potrebbe essere utile per il contesto trentino. Nei suoi studi ha dimostrato come la variazione linguistica, nello specifico la variazione sintattica, sia una sfida per i linguisti che la studiano, ma non per i bambini che acquisiscono un sistema caratterizzato da variazioni sintattiche. Secondo lei possono insorgere problemi per i bambini che apprendono il mocheno in famiglia e l'italiano a scuola? Potrebbero avere difficoltà a imparare una lingua così difficile?

Marit Westergaard: Gli studi sul bilinguismo condotti finora non hanno riscontrato "rischi" nella variazione linguistica per i bambini; non ho avuto occasione di occuparmi di questo caso specifico, ma ne dubito. Ad esempio, ci sono molti bambini bilingui a Tromsø. Anche se il dialetto locale presenta molte variazioni, questo non sembra comportare problemi per i bambini che imparano il dialetto di Tromsø e un'altra lingua. In realtà essere esposti a una grande variazione linguistica potrebbe costituire un vantaggio. Il lavoro svolto nei miei studi fino ad oggi si è focalizzato principalmente sui bambini monolingui e risulta che non abbiano alcun problema con la variazione linguistica. Per quanto riguarda i bambini bilingui tutto dipende da quanto input ricevono da entrambe le lingue, che deve essere comunque relativamente bilanciato. Come dice spesso Antonella Sorace, i bambini bilingui non dormono meno di quelli monolingui: tutto sta nel ricevere un input sufficiente in entrambe le lingue nel corso della giornata.

Federica Cognola: Lei pensa che per le lingue minoritarie su cui lavoriamo un asilo monolingue o una scuola materna dove per metà della giornata viene parlata una lingua minoritaria possa essere utile?

Marit Westergaard: Chiaramente se il bambino non riceve abbastanza input in mocheno un asilo nido monolingue sarebbe di grande aiuto, in particolare se questa lingua non viene parlata da entrambi i genitori. Gli studi hanno dimostrato che se nella comunità c'è una lingua dominante e solo un genitore parla la lingua minoritaria quest'ultima è "vulnerabile" per i bambini bilingui. Se si potesse intervenire in qualche modo sarebbe ottimo e un asilo nido monolingue costituirebbe una soluzione perfetta.

Federica Cognola: Solo un'ultima domanda. Il livello di inglese di chi viene da paesi del Nord Europa come la Svezia o la Norvegia è impressionante rispetto a quello degli italiani che hanno più difficoltà. Da cosa dipende?

Marit Westergaard: Mi piacerebbe dire che dipenda da un ottimo sistema scolastico. Questo è vero fino a un certo punto. Tutti cominciano a studiare inglese in prima elementare e continuano per dieci anni, il che ha la sua importanza. Tuttavia ho criticato il fatto che inizialmente i bambini non ricevano abbastanza lezioni di inglese, solo 30 minuti per i primi quattro anni di scuola: sono decisamente troppo pochi. I bambini non sono diversi dagli adulti quando si tratta di imparare una lingua: la recepiscono, la "assorbono" dall'ambiente circostante, per fare ciò sono necessari molto più di 30 minuti a settimana. Non credo quindi che la conoscenza dell'inglese in Scandinavia sia dovuta solo all'educazione ricevuta, ma al fatto che per noi è una lingua importante. La Norvegia è un Paese molto piccolo con 15 milioni di abitanti, e non possiamo andare all'estero né avere rapporti commerciali aspettandoci che la gente parli la nostra lingua. È necessario impararne un'altra, nel nostro caso l'inglese. Inoltre i film proiettati al cinema o trasmessi in televisione non vengono doppiati, di conseguenza i bambini sono esposti notevolmente all'inglese attraverso i videogiochi, Internet, la televisione e film. A volte dico che «l'inglese è nell'aria» e i bambini possono respirarlo.